Ana

(Daniele Siri. Oceano Atlantico, 2001)

Ana arrivò di sera, con il vento, insieme ad altre nove ragazze.

Si avvicinarono con un barchino fin sottobordo: da là, ci chiamavano perché lanciassimo loro una scala di corda. Sorridevano e ci salutavano in modo provocante, in uno strano Italiano con un forte accento; le loro pelli scure si perdevano nel buio del mare sotto la murata, mentre aspettavano. Così gettammo la “biscaglina” e vennero su a piedi nudi, agili nei loro vestiti sottili.

(Per un attimo la guardo e anche lei mi vede, ma è seria e subito le torna quel modo di fare distaccato: si protegge, forse, senza dimostrarsi simpatica come le altre... come se fosse qui per un motivo diverso dal dover seguire chiunque la chieda. Poi dimentichiamo di esserci visti e tutto intorno a noi ricomincia)

Bellissimi volti sorridenti, quelli di dieci ragazze sul ponte di una nave ancorata al largo del Brasile, un Brasile notturno fatto di cose come quella che stava per accadere là…. le stesse cose che, nelle case lontane della costa, potevamo immaginare ma non vedere.

Ma io avevo già una donna a casa, ad aspettarmi.

Per questo me ne andai senza salutare, prima che i miei colleghi cominciassero a spartirsele come una vincita al gioco d’azzardo. Inutile sentirsi strani: le ragazze vengono per lavorare e, se non vuoi consumare, è meglio lasciar perdere; è ciò che dissi ad un compagno, ma non sapevo ancora che mi sarei rimangiato tutto nei giorni successivi.

Non ho mai pensato ad Ana come ad una prostituta… ma forse non avevo mai pensato che una prostituta potesse essere davvero una donna, al di là della retorica visione da bravo ragazzo. Credevo di sì, eppure non mi sono mai sognato di avvicinarne una per scambiarci più di una battuta cordiale, nei porti o quando salivano a bordo: era un modo per sdrammatizzare la nostra condizione, piuttosto che la loro. Noi eravamo costretti a pagare per ravvivare il ricordo di un contatto umano, loro a vendersi per un tozzo di pane: difficile capire chi stesse peggio.

Quella sera vennero a bussare nella mia cabina intorno a mezzanotte…. lungo i carruggetti si sentivano soltanto loro, tra risate e schiamazzi. Le aspettavo. Aspettavo che bussassero, ma per mandarle via: è il paradosso del ragazzo fidanzato ma vanitoso o, forse, di chissà quale altra contraddizione dell’anima umana.

Quando andai ad aprire ce n'erano addirittura due, alla porta. E quando spiegai perchè non ero interessato, una di loro allungò sfacciatamente le mani per “controllare” che non stessi mentendo.

Non so dire come mi sentissi davvero.

Sembrava un gioco, quello di ragazze giovani (giovanissime?) che si proponevano a chiunque, senza distinzione di razza, età, stato di salute. Senza precauzioni. L’alternativa poteva essere fare la stessa cosa con uomini del loro paese con molti meno soldi e molte più amanti: è ciò che mi disse un taxista, un giorno, prima di esortarmi a scegliere una donna per la strada proponendole del denaro per il sesso. 

Secondo lui avrebbe accettato, quasi certamente, ma non ci ho provato.

Non lo avrei fatto neanche quella sera, con quelle ragazze… di questo vorrei appunto parlare. A volte si scrive per non dimenticare le cose accadute, e allo stesso modo si può fare per quelle non accadute.

 

Ana ha 23 anni e li avrà sempre, perché di lei mi resta solo il ricordo della notte in cui mi tenne compagnia durante la guardia in Macchina. Ana, che ascoltava una vecchia cassetta dei Culture Club nello stereo della saletta ufficiali, da sola.

-Questa mi aiuta a piangere…-

disse, tirandomi dolcemente per la barba. Poi:

-Vuoi che salga in cabina da te?-

Io rifiutai, con la scusa che stavo per cominciare il servizio: era una elusione alla domanda, d’accordo, ma era vero. Allora Ana annuì e chiese se potesse raggiungermi di sotto, in Centrale Propulsione.

-Parliamo soltanto, prima che venga la barca a riprenderci.-

-Sì… certo.-

Mi strizzò l’occhio:

-Aspetto la fine della canzone e poi scendo.-

Indossava solo un body trasparente e un paio di shorts.

Se ne stava seduta di fronte ai monitor dei motori con la pelle d’oca per l’aria condizionata, ma continuava a dire che stava bene. Pensavo a come fossero salite a bordo, arrampicandosi sulla scala di corda a piedi nudi, per circa dieci metri: difficile paragonarle con le “miss” della mia città… sapevo soltanto che una ragazza così bella, in Italia, avrebbe potuto fare quello che voleva. Avrebbe potuto mandarci gli uomini, a prostituirsi.

Invece era là, su quella barca, nello stato più povero del Brasile. 

Studiava psicologia, Ana, e non voleva i miei soldi. Mi regalò il filo d’oro che aveva al collo, per convincermi.

Era cresciuta in mezzo a strade di fango e case abbozzate, tenute in piedi dall’entusiasmo congenito della sopravvivenza. A 23 anni sembrava più temprata e più bambina di quanto non potrò mai essere né io né chiunque altro cresciuto al di sopra di un certo standard sociale.

Quando penso a lei, la vedo ancora seduta di fronte a me, con i piedi nudi appoggiati sopra alle mie gambe, a mostrarmi le cicatrici che si era procurata da bambina, giocando. E giocava attirando l’attenzione dei miei occhi lungo la linea della sua gamba, fin sotto l’orlo di quel pantaloncino striminzito.

Era una provocazione eccitante, nonostante sia finita per scoprirsi in un altro modo, svelando aspetti personali con l’illusione che, forse, in quelle poche ore potesse avverarsi una favola. L’unica favola, invece, me la raccontavo io, convincendomi che le chiacchiere e una tazza di tè la ripagassero davvero (al di là della buona fede) del tempo trascorso insieme.

Ad un certo punto, ridendo, disse:

-Una volta, un macchinista greco mi ha paragonato ad una macchina complicata…-

Sembrava lusingata.

-Sei sicura che ti piaccia essere paragonata ad una macchina?-

Ana non rispose, ma di certo colse la mia allusione.

Mi resi conto che soltanto allora cominciavo a considerarla davvero come me, una ragazza di fronte ad un ragazzo, in una situazione paradossale. Voleva far l’amore, Ana, e io le misi davanti il muro del mio legame con un’altra donna…. ferendole e tradendole entrambe, in un colpo solo.

Passando ufficialmente da eroe, però.

Tutte loro avrebbero dovuto restare poche ore a bordo della nostra nave, ma ce le lasciarono quasi un giorno. Rimasero nascoste in una cabina, al buio, con un via-vai di marinai che si diradava con il passare delle ore.

Ana chiedeva di me attraverso i colleghi, aspettando che andassi a trovarla nelle pause della guardia in quella specie di prigione fatta di piatti sporchi, silenzio e aria pesante. Pensai di portarla in cabina da me, ma temevo la trovassero.

L’ordine del comandante era stato di lasciarle là, per non rischiare che la Polizia le trovasse, ma forse ero solo un ragazzino cagasotto.

Sono venuti a riprenderle alle nove di sera.

Prima di salutarla cercai di spiegarle chissà che cosa, ma lei aveva già capito tutto… eppure mi propose di rivedersi al locale dei marinai, nella favela: Casablanca Dos Maritimos, si chiamava.

Le risposi di no.

Lei disse “ok ” e andò via.

Siamo rimasti una settimana, in quel posto: ogni sera mi riportavano sue notizie, chiedeva perché non la andassi a trovare. Dopo qualche giorno mi scrisse un biglietto: diceva di non volere soldi, ma non poteva obbligarmi a tradire la mia ragazza a casa, lo capiva. Voleva soltanto vedermi, ma so che sarebbe finita diversamente.

La distanza era l’ultimo ostacolo dietro cui nascondersi, finché non ce ne andammo.

Spero di non attraccare più in quel terminal, non saprei come comportarmi.

Forse come tutti gli altri, pagandola per dormire con me, e forse sarebbe la cosa di cui ha più bisogno. Non perché Ana sia davvero una macchina complicata, ma due ore di gentilezza e false speranze in una notte in cui avrebbe dovuto guadagnare soldi non le hanno cambiato la vita; sarebbe stato più semplice, per lei, ritrovare il suo macchinista greco un po’ poeta e meno Principe, piuttosto che prendersi un tè con i biscotti insieme a un indeciso romanticone italiano.

Infatti, arrivati alla fine della favola non c’è stata la consueta formula dei protagonisti fortunati che vissero felici e contenti, ma soltanto una banale “Fine”…